mercoledì 10 giugno 2015

L'Aquila e il Leone, la F con lo scudo

Più di una volta in questa operazione di rinascita mensanina si è guardato alla Fortitudo come un punto di riferimento, nel bene e nel male, e anche per questo le sue sorti non sono del tutto ignote alla gente di Siena. Ma per capire fino in fondo chi c'è di fronte sabato, ho chiesto a un amico e collega di Bologna Basket, Enrico Faggiano, di raccontare la storia della stagione della Fortitudo, e un po' anche quella della sua lunga ripartenza dal basso. Lo ospito volentieri, e lo ringrazio. Questo il suo contributo:

Ci sono anche questi scherzi del destino, nella storia del basket e in quella, più piccola, di una squadra a cui il Fato, tra qualche giorno, darà un appiglio per risollevarsi proprio nello stesso luogo, Forlì, dove cinque anni fa si aprì il baratro.
 
La storia della Fortitudo, al di fuori di Bologna e dei non addetti ai lavori, terminò nel giugno del 2010 con un canestro di Malaventura, figlio diretto ma povero del gol firmato da Ruben Douglas al Forum: vittoria nel campionato di B1, tanto emozionante quanto inutile, poiché nessuno, in città, si illudeva del fatto che la A2 conquistata sul campo si sarebbe potuta giocare. Troppe infatti le malefatte economiche del patron Gilberto Sacrati, tanto incollato alla sua sedia (e bravo a pagare sempre il minimo sindacale per evitare la definitiva scomparsa) quanto incapace di rimettere in piedi la baracca. Ciuf, vittoria, e il giorno dopo tutti a piedi, a domandarsi come ripartire da un cadavere, quello della Fortitudo Pallacanestro, che di fatto cadavere non era, dato che nessuno ne aveva certificato il decesso burocratico. Quello agonistico era certo, ma non bastava per far tornare in campo una squadra con la Effe scudata sulla maglia.

Da lì, ci sono stati tre anni di interregno, fatti di progetti illusori e velleitari: da un lato la Biancoblu di Giulio Romagnoli (dopo una prima stagione “con il soprannome”, andando a rilevare il diritto della Pallacanestro Budrio), dall’altro gli Eagles legati ancora a Gilberto Sacrati, con la speranza nel frattempo di trovare il modo per rilevarne onori ed oneri. Anni di fatto persi, poiché ad entrambi gli ibridi mancava qualcosa per poter di fatto diventare Fortitudo, con la non indifferente conseguenza di una dura divisione tra le diverse anime della tifoseria. Poi, alla fine, il fallimento della Fortitudo Pallacanestro, nell’autunno del 2012, come sanguinoso (dal punto di vista affettivo) ma inevitabile punto per ricominciare. Spegnendo in un modo o nell’altro i due ibridi, e ritrovandosi, nel maggio 2013, a dover riprendere il discorso: senza niente in mano, ma a volte è meglio ripartire da zero che non da numeri farlocchi.

Iscritta al campionato di B2 come “Fortitudo Pallacanestro 103”, ma privata dell’uso commerciale del marchio come unico, ancora, riflesso della gestione Sacrati, la nuova realtà e proprietà ha dovuto mettere in presidenza Dante Anconetani, ex giocatore di 30 anni prima abbastanza equidistante per poter evitare di essere visto come simpatizzante dell’una o dell’altra fazione. Tifoseria riunita anche se non ancora del tutto dimentica degli anni di guerra civile, ma subito un problema: la squadra messa in campo l’anno scorso non aveva né capo né coda, con tante primedonne ma nessun humus. Ergo, risultato inevitabile: vittorie più per inerzia che non per convinzione, e batosta al primo turno playoff (0-2 contro Cento) contornata da qualche escandescenza del pubblico, pronto a farsi giustizia da solo di giocatori con pedigree, tanto, e cuore poco.
 
Altra estate di passione e comiche (la lunga telenovela in attesa dell’arrivo degli “americani”, mai realmente palesatisi e senza la minima idea di quale fosse la serietà dei medesimi), e altra squadra messa in campo in fretta e furia (con i giocatori “fermati ma non firmati”, almeno all’inizio). Nuovo allenatore, Claudio Vandoni, ma nemmeno stavolta l’impressione di poter ammazzare il campionato, visto l’inizio zoppicante per via di qualche infortunio e qualche scelta sbagliata. Se non altro, l’idea che il gruppo fosse meno sfilacciato di quello precedente.

Prime posizioni di classifica, mancanza del quid necessario per il salto di qualità, poi in gennaio ecco una nuova minirivoluzione: la squadra ha perso qualche partita più per problemi psicologici – essere stata messa in discussione senza un reale tracollo di classifica –, Vandoni silurato assieme ad Anconetani, e via di restyling. Figlio, questo, di un rinnovata quanto mai esplicitata capacità economica: dentro quindi il fighter Nazzareno Italiano, e soprattutto il pluriscudettato Marco Carraretto.

Assieme a loro, in panchina, Matteo Boniciolli, roba chiaramente fuori categoria per la B2. Il coach triestino ci ha messo un po’ a capire la situazione (classico il suo “non so come mai questo non giochi in serie A” ad ogni serie di canestri presi da un avversario), ma alla fine la quadratura c’è stata, facendo leva su alcune caratteristiche tecniche, oltre al mai raffreddatosi amore del pubblico (con anche, purtroppo, qualche eccesso che ha portato alle due giornate di squalifica del campo nell’ultima di playoff, a Montichiari).
 
In primis, un platoon system dove in modo sistematico, all’ottavo minuto di gioco tutti e dieci i giocatori hanno messo piede in campo e dove i minutaggi sembrano distribuiti con il misurino. Poi, una grande capacità di aspettare le partite, sapendo con pazienza far passare i momenti difficili senza mai cercare di forzare i recuperi. Passando soprattutto da una difesa clamorosa, che spesso riesce a mettere in crisi le avversarie anche solo dal punto di vista psicologico, portandole quindi a commettere quelli che nel tennis si definiscono “errori non forzati”, tante volte decisivi.

Infine, un roster dove qualche big della precedente gestione (Samoggia e Valentini) ha faticato, ma dove nessuno è una star, e tutti sanno di poter dare il proprio. Con l’enfant du pays Montano a rompere i giochi quando serve, il baby Candi a far sbalordire della sua crescita, l’esperienza dell’asse Lamma-Iannilli. E infine Carraretto, che ha subito capito di non doversi prendere la squadra sulle spalle a prescindere: a lui, spesso, il compito di prendersi pochi tiri, ma di provare, e infilare, quelli della staffa. Ecco quindi spiegato un ruolino perfetto nei playoff, e l’arrivo a Forlì con la voglia di ripartire da dove, cinque anni fa, ci si era interrotti.

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