martedì 3 marzo 2015

Aspettando Parente

Ho letto con interesse un intervento del ds Lorenzo Marruganti (qui) in cui ha confermato e rilanciato nei confronti di Davide Parente una fiducia non nominale o generica, non di circostanza, ma fondata sulla conoscenza della persona e del giocatore. A lungo eluso nella speranza che la prossima partita avrebbe fatto decadere la questione, con la sosta il tema non può più essere evitato. A parlarne non si rischia più di ingigantire qualcosa che forse non c'è, perché c'è. Ed è il necessario punto di partenza di ogni tentativo di ragionamento costruttivo.

Sono passate 9 partite e due mesi dal suo ingresso in quintetto: mossa che ha fatto discutere, soprattutto col senno di poi, ma che credo fosse non solo necessaria ma anche arrivata nei tempi e coi modi giusti. Nella vox populi, il cambio di equilibri che ne è seguito, con la necessità di trovarne di nuovi, è stato alla base della crisi post natalizia. Nuovi equilibri nelle rotazioni che adesso possono dirsi positivamente raggiunti, anche con gli aggiustamenti nel reparto lunghi.

Sul piano dei numeri individuali invece il trend è andato in calando: nelle prime sei partite è andato cinque volte in doppia cifra, nelle ultime tre ha 4.6 punti di media. C'entra naturalmente il fatto che Parente sia passato da 11.5 tiri di media in quelle prime sei partite a 5.3 nelle ultime tre, meno della metà. La spia di un cambio di passo non casuale ma consapevole, leggibile in più modi: dalla maturità di chi non si antepone al bene della squadra, alla frustrazione per contrasto rispetto al rendimento a cui si è abituati. Il dato di fatto è il suo passo indietro rispetto al ruolo estivo di guida offensiva della squadra.

Appurata la guarigione clinica, la questione ha cessato di essere fisica o solamente fisica, per entrare nella sfera tecnica e della fiducia, del ritrovare se stesso e le giocate consuete. Parente sta provando a ripagare i buchi difensivi, e l'incapacità attuale di compensarli in attacco, con la disponibilità anche a snaturarsi per non essere un peso. Ma autoproteggersi nella conchiglia di una minore intraprendenza è pur sempre - appunto - uno snaturarsi, da cui per esempio anche le palle perse per disfunzionalità di alcune giocate.

Chi conosce meglio Parente, oltre a garantire sulla serietà del suo lavoro sin dal recupero estivo, lo racconta come il più colpito: per non essere stato finora all'altezza delle attese, o forse per i dubbi sulla capacità di tornare se stesso dopo l'infortunio, o forse per la voglia di dimostrare con carattere che invece ci riuscirà. Guardare le partite e rilevare le difficoltà è legittima osservazione dei fatti. Lo stesso Parente è sicuramente il primo a rilevarle, e a combatterle. Poi però farne il nuovo punching ball delle critiche, perfino soppiantando il tiro al bersaglio per Mecacci, ha un che di sleale.

Supportarlo è l'unica mossa giusta che la Mens Sana può percorrere. Lo consiglia la coerenza con le scelte estive. Che non sono intoccabili di per sé: uno dei più grandi play mai visti a Siena, forse il più grande, Vrbica Stefanov, arrivò per sopperire ai problemi con German Scarone (ancora lui!): la più grande dimostrazione che quando si chiude una porta forse si può aprire un portone.

Nell'estate 2000 l'avvocato Agnelli assegnò a Del Piero in difficoltà dopo un infortunio l'appellativo di Godot. "Aspettando Godot", imparò in quei giorni chi non lo sapeva, è una commedia del teatro dell'assurdo scritta da Samuel Beckett, in cui due vagabondi aspettano a oltranza l'arrivo di un personaggio (Godot) simbolo di un'attesa che si protrae all'infinito. Nella misura in cui non altera gli equilibri del gruppo, la promessa di quello che Parente può dare val bene l'attesa.

Aspettarlo non è un'opera di carità, ma il riconoscimento di un giocatore che - nella realtà che vive la Mens Sana oggi - ha un nome, una fama, una storia che hanno il valore di una promessa di rendimento futuro. Grazie al livello del gruppo di lavoro messo insieme e ai risultati che sta ottenendo, la Mens Sana si può permettere di aspettarlo. Di chiedere che Parente sia il turbo quando arriveranno le partite in cui ci si gioca l'obiettivo stagionale, da aprile in poi.

Guardare al passato non è un esercizio in paragoni blasfemi, ma il modo per rilevare che il basket, e lo sport, vive sempre sulle stesse logiche. La storia recente urla le settimane di rendimento anche dannoso di Bobby Brown e Daniel Hackett, di MarQuez Haynes e Othello Hunter, per poi vedere la fiducia ricompensata quando contava.

Ma la memoria evoca casi di ritorno da guai fisici come quello di David Andersen 2003/2004: buono nelle prime due partite, poi inguardabile per un'intera stagione (inguardabile! non stava in campo...) per chiudere la stagione con due mesi di una bellezza non spiegabile a parole. Evoca i danni fatti a oltranza da Marko Jaric (non riusciva a passare la metà campo!) e Malik Hairston per mettersi in forma, poi furono loro a portare la Mens Sana alla Final Four 2011. Cosa si sono vissute a fare queste cose se non per avere uno sguardo più competente rispetto a chi non ha avuto la stessa fortuna?

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