mercoledì 5 settembre 2018

Ode a Rimas

L'aveva già detto una volta, nell'estate 2016, dopo aver portato Reggio Emilia alla finale scudetto con Milano. Ma senza pallone non sapeva stare, e nel gennaio successivo era già tornato alla Reggiana. Se perfino la Mens Sana nei mesi scorsi ci aveva fatto un pensierino (più esattamente qualche sogno bagnato, senza spargere troppo la voce) è perché si fa sempre fatica a credere ai propositi di ritiro di Rimantas Kaukenas, highlander del basket, corpo bionico alimentato da una disciplina marziale e da un'inestinguibile fame da competizione, una dipendenza da palestra, e da agonismo.

Ma stavolta, forse, a 41 anni Rimas smette davvero, ora che i mesi lontani dal parquet hanno fatto arrivare a terra anche gli ultimi frammenti di polvere di stelle della scia di una carriera che suoi colleghi di alto livello in queste ore stanno definendo, oltre che di ispirazione per loro, anche da Legend di Eurolega. E del campionato italiano. Costruita in gran parte a Siena, e attorno a cui Siena ha vissuto la gran parte dei suoi giorni più belli.
 
E' arrivato alla Mens Sana da quella che, soprattutto in quegli anni, era la nemica per eccellenza, Cantù, capace come solo lui sapeva di entrare sottopelle agli avversari e di farli uscire di testa. Ci è rimasto dopo quello che forse è stato l'anno più buio dell'era Montepaschi, il 2005/06 in cui ha messo insieme molte delle sue migliori cifre italiane, eppure in un contesto di squadra disfunzionale spesso finiva a sbattere contro le difese avversarie, come posseduto da quella che poi si è imparato ad apprezzare come generosità – e lo zelo di chi sentiva l'obbligo di prendersi la squadra sulle spalle, piuttosto che arrendersi al naufragio – e invece allora sembrava solo grande ottusità tecnica.

***

La sua evoluzione, quasi rivoluzione, dal primo al secondo anno biancoverde è stato uno dei capolavori con cui Simone Pianigiani con una stagione miracolosa al debutto in panchina ha pavimentato la strada della carriera che poi ha avuto. E quell'evoluzione di Kaukenas è stata una delle svolta della storia della Mens Sana, della cui dinastia alimentata dal martellante perfezionismo e dalla feroce competitività Rimas è diventato forse il simbolo più coerente. Tanto era sprecone prima quanto è diventato l'icona dell'efficienza poi, la sua sublimazione in anni in cui le ricerche statistiche sul tema erano meno circostanziate. E quando il tuo giocatore più chirurgico è anche il più famelico, diventa l'arma letale.

Guidato perfino a convincersi a rinunciare al quintetto, e a persuadersi che in fondo anche chi comincia in panchina può essere un titolare verissimo, in anni e in un basket in cui sì, succedeva, ma non era così di moda, soprattutto per uno a cui andava il sangue al cervello, come un toro che vede rosso, già a non vedere il pallone per qualche secondo, figurarsi a iniziare le partite guardando gli altri. E invece entrava e le spaccava, le partite, conquistandole con la sua intensità totale e la sua energia incessante, proprio nel momento in cui tra gli avversari iniziava la stanchezza, o l'inerzia, o entravano le seconde linee (ma quelle vere, non titolari aggiunti), e lui faceva scacco matto caricandoli di falli con una scaltrezza che, vista dall'altra parte della storia, non poteva non mandarti fuori di testa.

Una volta con Roma tirò 20 tiri liberi, e senza un giocatore con queste caratteristiche sai quante polemiche in meno ci sarebbero state. Fu l'mvp della finale 2007, la prima dell'era Pianigiani, quella in cui in gara-2 a Bologna fece 25 punti prendendosi 13 tiri e segnandone 11... Ma il suo fotogramma di quella serie è nel giorno dello scudetto il suo “tiro da 4”, con la Virtus ancora attaccata sull'82 pari a un paio di minuti dalla fine, che trasformò quella gara-3 in un cappotto di gloria.

Ghiaccio bollente: il ghiaccio nei tratti baltici, negli occhi da agente segreto e nell'inimmaginabile self control di provare a tenersi dentro, anche a costo di vedergli fumare la testa, il fuoco di una passione molto più che latina, e che infatti a volte eruttava, anche se ormai si era imparato a leggergli nel linguaggio del corpo quando la pentola a pressione era ai livelli di guardia. Umanità. Disponibilità, cuore. Non solo quello dell'attività benefica nella lotta al cancro che lo impegna da anni fuori dal campo. Ma anche il cuore di chi nella quotidianità si è dato totalmente... “Cor Magis Tibi...”. La sua Siena, oltre al palasport, era provare a non incastrarsi con la sua macchina familiare per le vie del centro storico, dove abitava con la moglie Tanja e le bambine, che oggi sono tre perché a Emma e Tia si è aggiunta Vanessa.

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E' da guinness essere arrivati fin qui e non aver ancora ricordato le due volte in cui si è rotto il ginocchio ed è tornato a tempo di record, meno di cinque mesi “da casello a casello”, dal crac al rientro in partite ufficiali. La prima volta si fece male alla penultima di andata il 27 dicembre 2007 con Cantù e rientrò nella semifinale scudetto con Milano il 22 maggio, saltando la Final Four 2008 di Madrid, quella deragliata in semifinale contro il Maccabi. Di ritorno dall'anno “sabbatico” al Real Madrid, il suo giro alla Final Four Kaukenas se lo è fatto nel 2011 a Barcellona, quando fu il migliore nella semifinale persa col Panathinaikos, dopo essere stato già un gigante nel ribaltone della serie dei quarti con l'Olympiacos.

La possibilità di riprovarci gliel'ha tolta il secondo k.o. al ginocchio il 27 novembre 2011 a Cremona: ritorno flash il 26 aprile 2012 a Pesaro, ma troppo tardi per esserci nell'ultimo grande vero assalto all'Eurolega della storia biancoverde, quella squadra 2011/12 (quella degli Andersen e dei Rakocevic) costruita soprattutto per quello, un'ambizione che poi si è scoperta fatale per la vita e per i conti della Mens Sana, come un Icaro qualsiasi che si è voluto avvicinare troppo al sole. 

***

L'estate 2013 per la Mens Sana fu l'inizio di una rifondazione i cui termini si capirono meglio solo più avanti, intanto allora parve il momento giusto (non solo con Rimas) per dirsi che era stato bello, ma era il momento di un nuovo capitolo. Come già una volta quattro anni prima in Eurolega col Real, Kaukenas ha fatto in tempo a tornare da ex nel 2013/14, l'anno del de profundis mensanino, con la maglia di Reggio Emilia per sei partite, quattro a Siena, tra cui l'infuocato quarto playoff da sliding doors che cambiò, per entrambe, il senso della stagione.

A differenza di altri, per Rimas il richiamo del campo (e forse dell'Italia) è stato talmente forte da essere disposto ad affrontare, invece di restare all'estero, le conseguenze davanti alla giustizia e al fisco delle condotte contrattuali contestate negli anni senesi. A Reggio Emilia Kaukenas ha giocato due stagioni intere e altri due spezzoni, facciamo tre in tutto per capirsi. Vederlo negli anni scorsi issato come padre della patria reggiano, reggiano adottivo che lì ha trovato una seconda casa, e che adesso ha scelto per questo Reggio Emilia per mettere in scena la sua partita di addio al basket, fa un po' male. Non per tirarlo per la giacchetta (o per la maglietta), “Rimas è mio”, “No, Rimas è mio”. E' di tutti. Rimas è un patrimonio dell'umanità.

Fa un po' male perché nella scrittura della storia sta mancando un pezzo: quanto sia stata speciale e viscerale l'unione tra Siena e Kaukenas. Uno dei più grandi nella storia della Mens Sana. Forse, chissà, il più grande. Che a Siena ha vissuto i suoi anni migliori. Nulla di più naturale che immaginarlo di ritorno in città, per riabbracciarsi. E anche per rimettere sul soffitto, di fianco alla 5 di McIntyre e alla 20 di Stonerook, anche la sua maglia numero 13, ritirata quando se ne andò al Real, con la fretta del “tutto e subito” che si respirava in quegli anni a Siena, e ritirata giù altrettanto di fretta quando un anno dopo è tornato a giocare alla Mens Sana. Nel frattempo che a Siena son passati la liquidazione, il fallimento, le cavallette, i barbari e anche gli unni, chissà quello stendardo che fine ha fatto.

Il rapporto col passato è memoria, la memoria è identità. E aver fatto passare questi ultimi anni perdendo il rapporto col passato, almeno col passato recente e più polarizzante, sta col tempo diventando un costo altissimo in termini, appunto, identitari. No. Certi amori non finiscono.


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