E' divertente ripensare oggi agli anni in cui si sentiva dire: "Forte la Mens Sana, però appena mette la testa fuori di casa... in Europa non ha vinto niente". Tralasciando l'esattezza o meno della questione, è buffo il confronto con il presente del basket italiano. Vale la pena vedere la fotografia dei numeri alla fine del girone di andata di Eurolega.
Sassari, che in quanto campione d'Italia è nella massima competizione continentale con l'onere di rappresentare un movimento, è l'unica squadra di Eurolega che ancora non ha vinto una partita. E' zero su cinque quest'anno, è a 14 sconfitte in 15 partite compresa la scorsa stagione. Una vergogna. Tredici sconfitte su sedici partite considerando anche la fugace esperienza nella scorsa Eurocup come paracadute dall'inguardabile prima fase di Eurolega. Una vittoria in dieci partite giocate, tra Milano e Sassari. Ma non è solo un anno andato storto.
Milano è la squadra italiana con le risorse più importanti, risorse di livello europeo. Non al livello del Cska, ma da Top 16 per guardare ai playoff sicuramente. Le quattro sconfitte in cinque partite di quest'anno sono solo l'ultima parte in ordine cronologico del problema. Con Luca Banchi l'Olimpia aveva vinto 25 partite su 52 in Eurolega, facendo due volte le Top 16, di cui una i playoff sfiorando la Final Four. Con Sergio Scariolo ha vinto 10 partite su 26, uscendo una volta alla Top 16 e un'altra alla prima fase, come rischia di fare adesso. Con Piero Bucchi ha vinto 14 partite su 36, uscendo il primo anno alle Top 16 e due volte alla prima fase. In otto stagioni compresa questa fa 69 sconfitte su 119 partite, pari al 58% di sconfitte. Metà delle 50 vittorie sono arrivate nel biennio con Banchi, più o meno un terzo solo in quel suo primo anno in cui ha sfiorato la Final Four. Tolto quell'anno, evidentemente l'eccezione che conferma la regola, Milano nell'era Armani ha vinto il 37% delle partite giocate. Trentasette per cento.
In un paio di interviste in cui c'è stata l'occasione di parlare con Recalcati, in questo inizio stagione, ha sempre espresso - per la sua Reyer, dopo averlo sperimentato a Siena - il concetto di crescere anche puntando sull'esperienza che si fa in Europa, per alzare l'asticella, per inseguire la competitività, per non accontentarsi, per ritrovarsi tutto questo anche in campionato. Una stagione europea si può azzeccare, una fallire, ma misurarsi coi migliori crea negli anni una cultura. La cultura europea la Mens Sana ce l'aveva anche prima di Recalcati. Con Ataman. In un certo senso già dai tempi di Frates e della Suproleague. Andare in Europa a fare figurette non è mai stato contemplato. Non è questione di dire quanto è stata brava la Mens Sana (parlano i risultati). E' per dire che nessuno ha capito come si costruisce un'eccellenza. Fino ad alcuni anni fa il basket italiano ne esprimeva una, oggi no. L'inadeguatezza di chi dovrebbe crearne di nuove è ormai manifesta.
ps: i numeri della Mens Sana? Da Ataman in poi, ha vinto 132 partite su 231, pari al 57% di successi. A parte il singolare ultimo anno con Crespi, solo un anno (l'ultimo di Recalcati) non è entrata tra le prime sedici d'Europa. Nell'era Pianigiani 70 vittorie su 102 partite, 68.6% di successi, per isolare gli anni in cui la Mens Sana si identificava stabilmente come il top in Italia, non quelli precedenti o successivi in cui sulla carta il ruolo di società guida del movimento era di altri. Un po' come i club di riferimento oggi...
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I numeri sono numeri. Curioso però che non si noti che gli ultimi 3 protagonisti italiani in Europa sono tutti falliti malamente: Virtus, Fortitudo e Mens Sana…
RispondiEliminaPiù che "cultura europea" erano "budget europei", evidentemente insostenibili alla lunga per il basket italiano.
Ma sulla gara per la cicala più bella appunto parlano i numeri.
sono saltati, caro Matteo, tutti i club che hanno vinto lo scudetto dal 1984 al 2014, tranne Varese e Milano, e non credo di forzare la mano a dire che anche loro due - più Roma (1983) - a un certo punto hanno rischiato seriamente di unirsi al gruppo.
RispondiEliminaquesto potrebbe portarci a fare tanti discorsi sui massimi sistemi, tra cui quello forse più banale è l'incapacità del basket italiano di sostenersi da solo se non con soluzioni temporanee (generalmente l'imprenditore di riferimento, innamorato o più spesso con altri scopi), soluzioni che spesso finiscono in maniera traumatica.
mi basta però per concludere (conclusione mia, opinabile) che inseguire una dimensione europea non sia stato un problema più di quanto non lo sia stato inseguire anche solo una dimensione italiana. non è l'inseguimento di una grandeur con le gambe corte perché al di sopra dei propri mezzi: quei soldi vengono spesi comunque per fare bene in italia. cioè, non vedo un legame necessario tra fare buoni risultati in Europa e sperperi, ladrocini, cicalecci appunto.
piuttosto, ribaltando il discorso, non mi pare che chi in Europa ha fatto peggio abbia invece sempre speso meno e meglio. Anzi i fatti dicono che ha speso male, sicuramente peggio. magari perché è stato meno bravo.
anzi, proprio l'Europa dovrebbe essere la "livella" per eccellenza: non ci sono gli arbitri italiani, con tanto di arbitropoli e intercettazioni; i bilanci truccati o l'evasione fiscale non pesano, semplicemente perché ci sono regole diverse. a parità di ricchezza, non vince chi bara ma il più bravo (e fortunato, certo). misurarsi su quel metro lì dice tante cose sulla qualità del proprio lavoro.
ma l'essenza del mio discorso, ed esco dai tuoi binari per tornare sui miei, era capire il vantaggio "tecnico" di perseguire una dimensione europea. non viverla come un peso, ma come una palestra per crescere misurandosi coi migliori, alimentando un senso dell'impresa nella sfida ai più forti. una cultura vincente si plasma così, più che nella sparagnina e catenacciara difesa della propria superiorità in un movimento che appiattisce i valori invece di farti tendere al meglio
(scusa la lunghezza)